La Morte che uccide la morte

La Morte che uccide la morte

di Virginia Salles

La “sindrome del paradiso perduto” nasce da un miraggio, da un inganno fondamentale: l’illusione della separatezza che fa sì che percepiamo noi stessi separati dal resto del mondo.

La nostra epoca, che ha portato fino alle ultime conseguenze questa separazione tra l’ego razionale e l’unità primordiale tra Spirito e Natura intravista da Goethe, è caratterizzata soprattutto da questa perdita, dalla perdita della participation mystique. Ciò significa che nella misura in cui sentiamo il nostro io, il mondo diventa “sdivinizzato” e riusciamo a comprendere soltanto la natura inanimata.

L’Arte nel mondo greco aveva come scopo proprio quello di risanare questa frattura tra la nostra anima imprigionata e il perduto mondo degli dei e ridare vita a ciò che era morto per la coscienza abituale. Una specie di processo risanatore, un rituale per ritornare sani: era la Tragedia.

Se chiediamo a qualcuno di indicarci dove si trova la natura o a un credente dove si trova Dio, tutti punteranno il dito verso qualcosa fuori… fuori dalla porta, dalla finestra, o dalla città, non importa, fuori da se stessi. Questo gesto esprime l’illusione, la percezione di base che in filosofia viene chiamata dualità e che segna la nascita dell’attuale stato di coscienza. Ma segna anche l’inizio, secondo alcuni, di tutta la sofferenza umana, e persino del suicidio dell’umanità.

Questa obiettività esasperata, condizione primaria del metodo scientifico, arriva persino all’eliminazione del soggetto stesso, come sottolinea Edgar Morin. Oggi la meccanica quantistica e i nuovi sentieri della fisica moderna, ogni giorno di più sottolineano questo equivoco fondamentale, affermando che la separazione tra l’uomo e l’universo è artificiale.

La psicologia transpersonale studia in particolare quegli stati di coscienza in cui la dualità svanisce, e i vari metodi per attivarli. Le descrizioni di questi stati e dei vari mezzi per raggiungerli, si incontrano in tutte le culture, i periodi storici e in tutte le civiltà, sotto diverse denominazioni ma sempre tra loro compatibili. Tutto questo indica che il nostro attuale stato di coscienza di veglia, non è ancora sufficientemente dispiegato, nel senso che non ha ancora sviluppato le sue potenzialità.

Cosa non ha ancora raggiunto l’uomo, o cosa ha perduto? Per Steiner, non si può comprendere la vita che pulsa, con un pensare frammentato, con un pensare parziale. Ciò significa che con il pensare frammentato della coscienza individuale, con il pensare spiritualmente morto, possiamo comprendere soltanto ciò che è morto: la natura così come oggi ci si presenta, sarebbe stata sentita dall’uomo degli albori come il “cadavere” della natura. La forza del nostro pensiero deriva quindi dal cadavere dell’elemento animico-spirituale.

Secondo quanto esprime Steiner nella sua “Filosofia della libertà” – soltanto “il pensare morto”, può portare l’uomo alla libertà – ciò significa che soltanto da quando è presente il pensiero e quindi la morte, possiamo essere liberi. Ma, continua ancora il padre dell’antroposofia: “possiamo procedere al di là dello stato di sonno-morte abituale e ridare vita alla nostra anima non nata, attraverso l’inspirazione e il pensare immaginativo: possiamo ritornare vivi con l’immaginazione”. Goethe nel Faust fa dire ad una veggente: “amo chi aspira all’impossibile”.

Trovo sorprendente che una visione così ampia e feconda sulla natura umana come quella di Steiner, non venga tenuta nella dovuta considerazione nell’ambito psicologico ufficiale, là dove si trovano i semi di molte successive elaborazioni di importanti concetti psicologici, come, ad esempio, quello di Anima-Animus o il processo di individuazione di Jung.

Dall’astrazione, o dal pensiero morto – il prezzo della nostra libertà quindi – nascono le leggi, le arti, le conquiste della scienza, l’etica, che secondo Balzac sono la Gloria e il Flagello del mondo: come Gloria, ha creato le società; come Flagello, esonera l’uomo dall’accedere alla Specialità (la Coscienza Cosmica, l’individuazione junghiana), che è una delle vie dell’infinito.

In fondo alla sofferenza dilagante intorno a noi, troviamo in ogni essere umano la nostalgia di una felicità completa, assoluta, eterna che è simbolizzata nella genesi con il mito del “paradiso perduto”. Cerchiamo disperatamente la felicità fuori di noi stessi, sicuri che esista da qualche parte, in un luogo perduto: la cerchiamo, invano, nell’innamoramento, nel matrimonio, nel potere e nella ricchezza, nella droga, in una ideologia, nella religione. Questa sofferenza e questa vana e disperata ricerca di completezza viene definita in ambito transpersonale la “sindrome del paradiso perduto”.

La “sindrome del paradiso perduto” nasce da un miraggio, da un inganno fondamentale: dall’illusione della separazione, che fa sì che percepiamo noi stessi separati dal resto del mondo. Essa sta alla base di quella che viene definita “la malattia dell’uomo moderno”, ovvero la brama di potere nei confronti del mondo, senza essere capace di diventare lui stesso il mondo.

Un grave errore di valutazione, un “peccato” nel senso greco di “mancare il bersaglio”, per il quale l’ego, invece che morire per “essere” tutto il mondo, finisce per gonfiarsi a dismisura nel tentativo di “possedere” il mondo. La nostra epoca ha portato fino alle ultime conseguenze questa separazione tra l’ego razionale e l’unità primordiale tra Spirito e Natura ed è caratterizzata soprattutto da questa perdita.

Si definisce “Samadhi” quello stato di coscienza che etimologicamente significa “unione con Dio”, in cui la dualità svanisce e l’individualità separata viene dissolta. Nel samadhi la verità emerge attraverso la rinuncia a tutte le forme e l’accesso diretto al solo Significato, esperienza questa che di solito viene ritenuta un’unione con Dio e rappresenta il vero e proprio spartiacque tra la psicologia occidentale e i grandi sistemi psicologici orientali.

La più radicale e più drastica di tutte le morti, “la Morte che uccide la morte” e apre le porte all’estasi e alla libertà di una coscienza più vasta, ci ricongiunge al paradiso perduto e va ben oltre le morti “minori” di aspetti parziali della nostra personalità, che accompagnano il nostro percorso evolutivo. La “morte dell’ego” scuote tutti i punti di riferimento, sottrae la terra sotto i piedi e fa apparire all’orizzonte “il mondo degli dei”.

Tratto da: Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010

Articolo di Virginia Salles

Fonte: http://centrostudipsicologiaeletteratura.org/2014/01/la-morte-che-uccide-la-morte-ai-confini-dellego-tra-oriente-e-occidente/

 

di Vimala Thakar

La meditazione è ritornare a casa; è un viaggio di liberazione dalla morsa dei processi involontari con cui siamo cresciuti. Un viaggio dall'io limitato all'essenza illimitata che scopriamo di essere.

Durante la giornata siamo sempre in compagnia degli altri, sempre in rapporto, ma nella meditazione passiamo dai rapporti alla solitudine, dalla parola al silenzio, dal continuo movimento all'immobilità.

Vivere in questa società e soddisfarne le richieste ci rende tesi, irritabili e impazienti.

Siamo schiavi delle nostre reazioni, schiavi delle richieste della mente.

Esultiamo se ci accade qualcosa che giudichiamo un bene o ci demoralizziamo se lo riteniamo un male; ma cosa succede se ci sediamo in silenzio, senza giudicare, valutare o mettere in atto i dettami della mente?

Siamo abituati a giudicarci in continuazione, vogliamo essere i migliori agli occhi degli altri, vogliamo essere riconosciuti e apprezzati. Perché non siamo soddisfatti di come siamo?

La vita è appagata dal fatto stesso di vivere; se il solo vivere non ci dà gioia e aspettiamo che la gioia provenga dalle circostanze esterne o dalla società, abbiamo perso la nostra libertà.

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