Essere se stessi è un continuo movimento

Essere se stessi è un continuo movimento

 

La mia parola per questo 2022 (sempre che non arrivi prima l'apocalisse) è autenticità. Non perché io l'abbia scelta questa parola, piuttosto è stata lei a scegliere me, facendo capolino più volte durante i miei esercizi di Design Thinking come ho raccontato in questo articolo.

Questo significa che voglio impegnarmi a essere più autentica, che cercherò per quanto possibile di circondarmi di persone che percepisco autentiche, ma anche che cercherò di capire un po' più a fondo: cosa significa essere autentici? Perché è importante? Come lo si diventa?

Cosa voglia dire essere autentici lo capiamo in modo intuitivo anche se è piuttosto difficile darne una definizione precisa. Vuol dire essere se stessi, non fingere, non allontanarci dal nostro modo di essere, non diventare dei teatranti nel palcoscenico della vita.

Prova a essere te stesso è un consiglio che ci hanno rifilato in un sacco di occasioni: prima di un colloquio di lavoro, di un evento importante, di un discorso in pubblico, di un primo appuntamento... situazioni accomunate dal desiderio di fare bella figura e dal timore di essere giudicati male, non accettati, non scelti. Un consiglio che potrebbe non soddisfarci per almeno due motivi. Prima di tutto perché non è poi così semplice capire come si fa a essere se stessi, e poi perché ci lascia con le nostre inquietanti domande: e se così come sono non piaccio? se non vado bene?

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È in questo dubbio che si insinuano un sacco di problemi, perché nel tentativo di andare bene (agli altri) rischiamo di allontanarci da chi siamo veramente. Magari all'inizio ci sembra che possa essere solo una strategia, ma poi a forza di fingere di essere qualcun altro finiamo con il perderci.

Essere se stessi è una roba complicata. Significa intanto conoscersi: essere consapevoli di chi siamo, nel bene e nel male. Significa anche avere la capacità di riconoscere nel nostre emozioni e di accettarle come sono. E anche avere la capacità di agire in modo autentico, cioè in accordo con quello che pensiamo e che sentiamo. Questo si tira dietro anche la responsabilità: agire in modo autentico significa smettere di incolpare gli altri dei nostri problemi, e anche accettare che gli altri possano essere scontenti di come siamo e delle scelte che facciamo. Essere se stessi significa correre il rischio della disapprovazione ed è per questo che in certe circostanze può riuscirci molto difficile.

Secondo un famoso aforisma, attribuito al Mahatma Gandhi, siamo felici quando quello che pensiamo, che facciamo e che diciamo sono in armonia. È chiaro che pensiero, azione e parola non possono essere sempre allineati al cento per cento: banalmente non ha senso dire tutto quello che pensiamo; prima di agire meglio pensarci su e non fare la prima cosa che ci passa per la testa; a volte le convenzioni sociali ci impongono comportamenti che possono non essere esattamente nelle nostre corde. Quindi non possiamo sfuggire a una certa misura di finzione nelle nostre vite. Però, se la mancanza di autenticità diventa un tratto costante della nostra esistenza non possiamo che soffrirne, con ricadute negative sulla nostra salute mentale.

Lo afferma, tra gli altri, lo psicologo Stephen Joseph, autore del libro Authentic. How to be yourself and why it matters. Sulla base dei suoi studi nel campo della psicologia positiva, Joseph afferma che le persone autentiche tendono a essere più felici. Sono persone che non dipendono troppo dal giudizio degli altri, che hanno una visione realistica di sé e del mondo e che riescono senza troppe difficoltà a esprimere quello che sentono.

Nasciamo tutti autentici. Quando siamo molto piccoli esprimiamo i nostri bisogni senza filtro, e facciamo tutto quello che ci passa per la mente. Esploriamo il mondo andando spontaneamente verso quello che ci attrae, siano suoni, colori, sensazioni. Ben presto però impariamo che non è questo quello che gli altri si aspettano da noi. Acquisiamo autoconsapevolezza e cominciamo a capire che certi nostri comportamenti vengono incoraggiati, e altri al contrario disapprovati. Fa parte del naturale processo di crescita, ma quello che accade, spiega Joseph, è che talvolta i genitori, gli insegnanti, le altre persone che si prendono cura di noi, ci facciano capire che per andare bene, per essere amati, dobbiamo comportarci in un certo modo. Anche senza volerlo ci impongono una condizione per andare bene.

Certo, l'ideale di amore è quello incondizionato: quello in cui un bambino si sente amato sempre. Guidato, rimproverato se occorre, ma incoraggiato a esprimere il suo potenziale in qualsiasi direzione. Però non è un ideale facile da realizzare e credo che la maggior parte di noi abbia finito con l'interiorizzare almeno un paio di quelle che Carl Rogers ha chiamato conditions of worth. Ci convinciamo cioè che andiamo bene, valiamo qualcosa, siamo meritevoli, solo se rispettiamo alcune condizioni, che saranno diverse per ognuno di noi, a seconda di come siamo stati cresciuti e degli eventi che ci hanno maggiormente influenzato. Ci sono persone convinte che per andare bene devono essere belle, altre brave, altre intelligenti; per qualcuno sarà il bisogno di avere sempre ragione, per qualcun altro il bisogno di primeggiare...

Nel suo libro, Stephen Joseph fa un elenco di queste condizioni. In quali di queste ti riconosci?

Per andare bene io devo...

  • lavorare duro
  • piacere agli altri
  • non piangere mai
  • non arrabbiarmi
  • non lasciare che gli altri si accorgano delle mie debolezze
  • fare quello che mi viene detto
  • essere forte
  • essere intelligente
  • parlare poco
  • non farmi notare
  • essere il migliore (o la migliore)
  • avere sempre ragione
  • vincere sempre
  • raggiungere la perfezione
  • essere bello (o bella)
  • avere successo
  • avere molti soldi

Puoi anche sostituire la frase iniziale con qualcosa di diverso: per esempio: per essere felice devo..., per essere amata (o amato) devo... siamo sempre lì.

Queste spinte, che abbiamo imparato da piccoli, diventano voci interiori: sono quelle che poi a un certo punto ci criticano perché non siamo abbastanza.

Secondo Joseph però esiste anche un'altra voce, una voce saggia, quella della nostra autenticità, che esprime ciò che siamo veramente e che ci spinge nella direzione giusta per noi. Solo che spesso non siamo in grado di riconoscerla tra le altre.

La mancanza di autenticità si installa qui: quando le voci interiori che ci dicono come dobbiamo essere per andare bene ci impediscono di sentire con chiarezza quell'altra voce che ci suggerisce cosa è meglio fare per soddisfare i nostri bisogni più veri, più autentici. Qui può crearsi un conflitto e possiamo ritrovarci a fare scelte sbagliate o a trascurare parti di noi che sono importanti.

L'autenticità però poi alla fine è anche un miraggio, o comunque al massimo può indicare una direzione e non una meta. Non è possibile - e non ha nemmeno senso - pensare che da adulti si possa essere come i bambini molto piccoli, completamente se stessi senza filtri e senza mediazioni. La consapevolezza di sé, l'immagine che abbiamo di noi stessi, il bisogno di collaborare con gli altri e di vivere in società ci portano per forza di cose a mediare, a fare compromessi, a fingere talvolta. Non è questo in discussione.

Però, se i nostri bisogni più autentici e profondi vengono sistematicamente ignorati perché le nostre voci critiche parlano troppo forte e ci spingono in continuazione verso la direzione opposta, allora c'è qualcosa che non va, e recuperare in autenticità può essere senza dubbio la cosa giusta da fare.

Non dall'oggi al domani, ma un passo alla volta. Non c'è un punto in cui possiamo dirci che siamo arrivati: adesso sono davvero me stessa o me stesso. È piuttosto una direzione, un movimento. Allontanarsi da qualcosa e andare verso qualcos'altro.

Via dalle apparenze
Via dai "dovrei"
Via dal bisogno di soddisfare le aspettative degli altri
Via dal bisogno di compiacere gli altri
Verso l'autodeterminazione
Verso l'apertura all'esperienza
Verso l'accettazione degli altri
Verso la fiducia in noi stessi

Ne potremmo fare un manifesto con questi movimenti, o tanti post-it da attaccare in giro per casa per ricordarci qual è la direzione giusta verso cui indirizzare i nostri sforzi.

L'autenticità è un'idea comunque sfuggente, perché noi non siamo sempre uniti. La ragione può spingerci in direzioni diverse rispetto alle emozioni, e sarebbe sbagliato aderire a una concezione ingenua secondo la quale le nostre emozioni hanno sempre ragione. Vanno ascoltate, quello sì, e le emozioni, nel momento in cui le stiamo provando, sono giuste e vanno bene, non ha senso giudicarle. Ma questo non vuol dire che agire in modo autentico significhi agire sempre in base a quello che ci suggeriscono le emozioni.

Non è facile quindi andare alla scoperta della propria autenticità. Mi sembra però che questo tema stia diventando sempre più attuale, anche perché durante questi anni di pandemia molte persone hanno cominciato a capire che non tutto quello che stavano facendo nella loro vita in termini di carriera, abitudini, obiettivi aveva davvero senso per loro. L'ha spiegato molto bene Annamaria Testa in questo articolo su Internazionale. Forse, chissà, siamo pronti (o quanto meno più pronti di ieri) a lasciare un po' andare la società della performance e del fare continuo per concederci il lusso di esplorare altre possibilità.

Saltando di palo in frasca, un altro ambito in cui si sta aprendo una maggiore possibilità di essere autentici è quello che riguarda la salute mentale: a poco a poco il bisogno di nascondersi sta lasciando il passo alla possibilità di condividere le proprie difficoltà, di creare dialogo, di accettare l'idea che tutti siamo vulnerabili e che attraversare momenti in cui non stiamo bene è parte dell'esperienza umana e non una vergogna da reprimere con tutte le nostre forze. E lo stesso possiamo dire per l'orientamento sessuale e l'identità di genere: la consapevolezza su questi temi tende a crescere, e così cresce anche la possibilità che le persone provino semplicemente a essere se stesse e a esprimersi per come sentono di essere. Non sto dicendo che siano caduti tabù e stigma, ma qualche passo avanti rispetto al passato l'abbiamo fatto.

Ho anche la sensazione, guardando alla mia esperienza, che il passare degli anni ponga nuove sfide, ma anche nuove possibilità, al nostro bisogno di autenticità. Crescendo si diventa naturalmente meno suscettibili al giudizio degli altri: abbiamo meno bisogno di piacere e di compiacere, e meno tempo da perdere in attività che servono a mantenere le apparenze. Dipende, credo, dal fatto che ci siamo già lasciati un bel pezzo di vita alle spalle, e da qui l'urgenza di essere e fare quello che davvero ci piace, ci fa stare bene, e ci fa sentire in armonia con il nostro sentire. Nello stesso tempo invecchiare è una sfida, perché tutto intorno a noi ci sono segnali che ci dicono - anche qui - che l'invecchiamento va ritardato il più possibile, nascosto, mascherato, camuffato. Allora serve molta consapevolezza di sé per non farsi fregare da questo ennesimo tentativo di farci sentire sbagliati, e cercare di invecchiare con grazia, e, di nuovo, con autenticità.

 

My Way Blog - Marina Innorta

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