Pensiero, parola e azione

Pensiero, parola e azione

Trascuro le conquiste, talvolta auto celebrative, della neurologia o delle discipline che studiano i processi cognitivi, da lasciare agli specialisti. Mi limito a considerare l’esistenza dei problemi riguardanti i rapporti tra:

a) pensiero e parola,

b) pensiero e azione.

a) Il primo ripropone il noto dubbio se possa esistere una parola senza pensiero e viceversa. Dubito che si possa pensare alcunché prescindendo dalla parola, cioè: parlare senza pensare è sicuramente possibile se si intende la parola come mero suono, come accade per chi soffre di disturbi del linguaggio o di una qualche forma di pazzia o di ubriachezza. In termini correnti si dice spesso: «parla senza sapere quel che si dice»; ma se si prescinde da patologie, peraltro frequenti, bisogna riconoscere che il pensiero è strettamente ancorato o condizionato dalla esistenza della parola, che, se manca, rende impossibile il pensare. È nota la giustificazione di Martin Heidegger di non aver portato a compimento Essere e tempo per carenza di linguaggio, giustificazione non del tutto convincente, se si pensa che Dante Alighieri scrisse la Divina Commedia inventando il linguaggio che mancava nella lingua corrente. Il problema si connette alla domanda: è nato prima il pensiero o il linguaggio? Alla domanda non so dare risposta, ma immagino una mamma dei primordi dell’umanità, che non possiede ancora il linguaggio, ma desidera accompagnare il sonno del suo figlioletto stretto tra le braccia con una ninna nanna: emette i suoni più carezzevoli che può anche senza parole. Centinaia di migliaia di anni dopo musicisti eccelsi come Puccini, Verdi, Mascagni inserirono in alcune loro opere il “coro muto”, che ci affascina anche senza parole, ma per il solo incanto del suono. Allora: la parola e il pensiero sono reciprocamente strumentali o sequenziali? Mi limito a ritenere che il grugnito non è parola;

b) Il secondo: pensiero e azione, propone un asse analogo. Essi non ammettono la fissità, perché sono ontologicamente dinamici. Il vero problema è la loro sequenzialità o la contestualità. I riferimenti possono essere molteplici. Ricordo il punto di vista del filosofo Giovanni Gentile, che in “Genesi e struttura della società”, scrive a pag. 8 «…ogni tentativo di assegnare un divario tra pensiero e azione s’ispira al desiderio di sottrarre il pensiero alla responsabilità dell’azione, conferendogli non si sa quale necessità che, gabellata per logica, si crede erroneamente suscettibile di libertà… »

. Non traggo conclusioni, osservo solo che Gentile non sviluppa certo riflessioni di natura neurologica, ma dà un giudizio morale molto forte e che potrebbe collegarsi alla domanda: “a che serve pensare, se contestualmente o immediatamente dopo, non si agisce?”. Che è come affermare che il pensiero impone l’azione e condanna l’ignavia. Ma sottintende, data la nota spiritualità di Gentile, il retto pensare e non ipotizza che un essere umano possa pensare, per esempio, di compiere il male e vi dia seguito, perché non sarebbe un’affermazione di libertà, ma la sua negazione.

 

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